di Fabio Orecchini
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[via Omero.it]
Dome Bulfaro ha interpretato la mia richiesta di luogo, di scelta di luogo della poesia come una vera e propria necessità del corpo, come un’urgenza del corpo nella parola.
Della parola-corpo. Necessità di interrogare la carne e i suoi sensi, l’esperienza che il corpo racchiude, sottende, l’esperienza delle ossa, sulla scia di un lungo cammino del pensiero
che dalla filosofia classica greca giunge a Bergson e che comprende Eliot come Heidegger.
Dome Bulfaro pratica una ferita, che immagino nel taglio di un bisturi, un fendente, “io non so nulla di poesia ascolto il polso con l’orecchio / e trascrivo sulla carta ciò
che ogni rivolo mi detta”; si tratta di un dissezionamento consapevole, una riscoperta, una fessura da cui affiora un ricordo, comune a tutto il genere umano, un sentire
che il poeta chiama canto universale; Bernard Noel negli Estratti del corpo scriveva nel 1958 “mi ricordo / e qualcosa fa buio / per sviluppare quel momento
/ in cui il corpo trasudava pensiero / il pensiero traeva dalla sua forma il corpo”.
Una ri-velazione. In un passo dell’intervista il poeta parla di segno, di trascrittura su di un corpo-carta, dal segno al suono: “..questo segno sulla pagina-corpo fa filtrare della luce, disegna
una composizione e questa composizione trova col tempo, attraverso il mestiere del poeta, un suo suono… fa sì che queste voci recuperate in un certo luogo del corpo risuonino tra loro e ritrovino un canto o generino un canto nuovo.”
E’ quindi il corpo la chiave che apre la stanza, ma è anche la stanza, il luogo oltre la porta. Perchè noi al corpo sempre torniamo, al nostro confine, al limite che è il nostro corpo:
è il cibo che ci nutre e l’acqua che ci disseta, la carne che tocchiamo, che amiamo e che annusiamo, il sangue, la ferita materna, il respiro-parola. Diviene nell’ottica del poeta
il punto da cui ripartire, custode immutato nei millenni della verità del linguaggio. Ed è uno scavare continuo, un’archeologia dell’essere, in cui il poeta mostra il suo desiderare, la sua carne di rivolta, dal rivolo fino a “..brevi ricordi / che non puoi dimenticare come quando nostra madre / ci insapona con le papere in una vasca di sangue / fraterno , o nel loro letto per contagiarci l’amore”.
Le poesie sono di chi se le beve, e allora cin cin Dome.
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